Gli effetti della globalizzazone stanno mettendo in profonda crisi tutti i sistemi di sicurezza sociale dei Paesi industrializzati. Tra i fattori che incidono maggiormente in questa direzione vi sono la crisi della finanza pubblica, le destabilizzanti trasformazioni economiche, sociali e occupazionali e i notevoli cambiamenti demografici. I sistemi tradizionali, nati nella prima metà del secolo e che tanto hanno contribuito al progresso civile e alla stabilità sociale degli Stati occidentali soprattutto europei, si basavano su un modello lavorativo caratterizzato dal rapporto a tempo indeterminato e prevedevano l’assicurazione contro rischi omogenei, quali la vecchiaia, la disoccupazione, la malattia, la maternità. Ora il quadro è profondamente cambiato e cambierà ancora più in futuro: la precarietà, la diversificazione e la frammentazione della vita lavorativa, l’aumento dell’età media, i nuovi bisogni e i nuovi rischi, tutto conduce verso una trasformazione del modello di welfare finora attuato.
Il rischio è che di fronte a questa emergenza si rompa quel vincolo di solidarietà e di coesione sociale alle cui basi era il sistema e che pertanto si possano affermare modelli di tutela del tutto differenziati, non più occasione di uguaglianza e di promozione sociale bensì come sistema di garanzie soddisfacenti solo per alcune categorie di lavoratori e pensionati.
Vi è anche il rischio che l’intervento pubblico venga limitato ad ambiti e a funzioni puramente residuali, nel senso che l’inefficacia di un servizio (specie in campo sanitario) spinga un numero crescente di utenti che ne hanno la possibilità a rivolgersi a prestazioni a pagamento, cioè al mercato, e l’assistenza dequalificata rimanga destinata solo a chi non può farne a meno ed è costretto a subirla. Con una duplice conseguenza negativa: da un lato chi non usufruisce del servizio paga ugualmente il suo contributo ma lo sopporta come una tassa sempre più ingiusta, dall’altro la struttura pubblica entra in una spirale di progressiva dequalificazione. C’è in sostanza il rischio di un ritorno a tempi remoti precedenti alla nascita del welfare, tempi nei quali l’intervento pubblico era di tipo assistenziale caritativo ed era destinato solo alle fasce più povere e diseredate della popolazione.
Il welfare italiano, oltre a subire ovviamente come gli altri Paesi industrializzati i fenomeni appena citati, presenta alcune peculiarità che aggravano i problemi. Vi è anzitutto l’entità del debito pubblico e la necessità che lo stesso venga risanato per evitare nuove crisi finanziarie e per rispettare gli impegno con gli altri Paesi europei stabiliti nei Trattati. Questo spinge verso un estremo rigore nella spesa pubblica e la tentazione ricorrente dei governi tende a ulteriori tagli della spesa sociale, anche se è bene ricordare che tale spesa complessiva in Italia è inferiore alla media europea.
Altro fattore critico è costituito dall’invecchiamento della popolazione che prevedibilmente interesserà l’Italia in un prossimo futuro con una intensità maggiore che nei restanti Paesi. Questo fenomeno, per certi versi imprevisto, è causato dalla concomitanza del calo della natalità (l’indice italiano è tra i più bassi del mondo e il più basso d’Europa) e dall’aumento della vita media. Il fattore invecchiamento si traduce in una crescente domanda di prestazioni in campo sanitario, pensionistico e di servizi sociali e di conseguenza in maggiori oneri finanziari che richiederanno il reperimento di sempre maggiori risorse.
Sono infine da menzionare, come peculiari del welfare italiano, alcuni tratti negativi rispetto ai modelli europei. Anzitutto la inefficienza e l’inadeguatezza dei servizi specialmente nell’assistenza sanitaria: se i servizi sono scadenti si producono sprechi e si inducono effetti perversi anche sul piano dell’equità dal momento che chi può permetterselo utilizza strutture private e chi non può è costretto a subire l’inefficienza. Inoltre lo scambio tra consenso politico e assistenzialismo clientelare che ha caratterizzato la vita politica italiana per decenni: sono gravati sulla collettività e sull’intero sistema di welfare pesanti oneri per prestazioni concesse e non dovute o per tolleranza di comportamenti illeciti.
Gli obiettivi minimi e immediati di riforma dell’attuale Stato sociale si riferiscono agli interventi di compensazione nei confronti delle aree di povertà e di bisogno, al controllo degli sprechi, al raggiungimento di livelli più alti di efficacia e di efficienza, al miglioramento del rapporto tra la spesa e la qualità del servizio, ad un rapporto più paritario tra cittadino e pubblica amministrazione. Ma al di là di tali obiettivi che ineriscono ad un semplice miglioramento del sistema si pongono come necessarie e opportune scelte di fondo per il futuro del Paese. Il ruolo attivo dello Stato nei processi economici è indispensabile per stabilire la priorità degli interessi collettivi rispetto agli interessi individuali o di gruppo. Lo Stato deve provvedere all’offerta di sempre migliori servizi di interesse generale, i quali, per loro stessa natura di capillare diffusione, la qualità del servizio e l’accessibilità delle tariffe, più che alle mere logiche di mercato debbono rispondere ad esigenze essenziali di coesione sociale e, di conseguenza, sono di essenziale pertinenza pubblica.
IV.2. La previdenza
In poco più di dieci anni in Italia sono state varate ben quattro riforme previdenziali (governi Amato, Dini, Prodi e Berlusconi). Tutte hanno peggiorato le prestazioni e reso più difficili i requisiti per ottenerle: sono stati progressivamente elevati i requisiti di età e di contribuzione per l’accesso alla pensione di vecchiaia; sono stati inaspriti i requisiti per ottenere la pensione di anzianità contributiva, eliminandola di fatto dal 2008; è stato introdotto un criterio meno favorevole per determinare la retribuzione pensionabile e sono state abbassate le aliquote di rendimento; si è sostituito il metodo retributivo con l’introduzione progressiva del metodo contributivo; è stato stabilito l’adeguamento dei livelli pensionistici sulla base del tasso di inflazione programmato anziché di quello effettivo ed è stato abolito l’adeguamento collegato all’aumento medio delle retribuzioni.
Il risultato, gravemente negativo e preoccupante, di queste riforme è che mentre nel periodo precedente la pensione dell’INPS “copriva” circa il settanta per cento dell’ultima retribuzione adesso la prospettiva virtuale per i lavoratori di prima occupazione è ridotta ad una copertura del cinquanta per cento. Tra l’altro si tratta di “prospettiva virtuale”, indicata in base a calcoli previsionali che presuppongono un certo tasso di sviluppo annuo del PIL (1,5 %) e un certo tasso di inflazione annuo (1,5 %). Queste previsioni sono ormai saltate e quindi questo tasso di copertura è già messo in discussione. Ma soprattutto va detto che questo modello matematico si basa sull’ipotesi ottimale di 35 anni di anzianità contributiva, mentre già oggi l’anzianità contributiva media per le pensioni di vecchiaia è inferiore a venti anni. Il traguardo dei 35 anni di contribuzione sarà un miraggio per la stragrande maggioranza dei lavoratori e perciò risulterà chimerico perfino l’obiettivo di avere una pensione pari al cinquanta per cento dell’ultima retribuzione.
Siamo di fronte, evidentemente, ad un problema sociale di enorme portata, che incombe sul futuro delle giovani generazioni. Una diminuzione così drastica dei livelli di reddito di coloro che saranno pensionati fra venti o trent’anni è destinata a provocare ripercussioni negative a catena sull’intera società. Meno consumi con conseguenze negative sull’economia, più persone bisognose dell’assistenza pubblica, abbassamento della qualità di vita per una notevole fascia della popolazione.
Di fronte a questa emergenza il legislatore, anche con un occhio a quanto avvenuto in altri Paesi europei, ha cominciato una decina d’anni fa a dettare regole per la previdenza complementare che, per definizione, dovrebbe integrare il trattamento erogato dalla previdenza pubblica mediante Fondi pensionistici. In sostanza si è ritenuto che l’unica possibilità di attenuare i disastrosi effetti della riduzione della copertura pensionistica del regime pubblico a seguito delle riforme risieda nell’avvio di un organico ed universale sistema di previdenza complementare. Fermo restando che al sistema pubblico dovrebbe riservarsi il ruolo centrale di garantire una base di sicurezza economica alla popolazione non più in attività. Si è così costruita l’architettura dei cosiddetti tre “pilastri” della previdenza : primo “pilastro” la previdenza pubblica, secondo “pilastro” quella complementare dei Fondi negoziali basati sulla contrattazione collettiva, terzo “pilastro” quello la previdenza individuale attuata mediante i Fondi cosiddetti aperti creati da intermediari finanziari o assicurativi o mediante i piani individuali previdenziali predisposti dalle compagnie di assicurazione.
A dodici anni di distanza dalle prime norme sulla materia bisogna prendere atto del ritardo pesante con cui si sta sviluppando il secondo pilastro, rallentando così la realizzazione di una previdenza complementare in grado di raggiungere gli obiettivi che si prefigge e danneggiando in particolare le nuove generazioni entrate nel mondo del lavoro a partire dagli anni ottanta. Attualmente sono circa un milione e settecentomila i lavoratori privati iscritti ai Fondi negoziali, sia di nuova costituzione sia preesistenti presso banche ed assicurazioni, a fronte di un bacino di circa nove milioni di potenziali aderenti ai 42 Fondi autorizzati per i lavoratori dipendenti.
Un dato che fa riflettere riguarda la limitata adesione dei giovani. Gli iscritti con meno di 35 anni sono circa il venti per cento del totale : ciò avviene sia per una ancora imperfetta conoscenza e presa di coscienza del problema previdenziale che si presenterà in anni per loro lontani sia perché la maggioranza dei Fondi prevede la possibilità di iscrizione solo ai giovani con contratto a tempo indeterminato. Quindi tutti i giovani assunti con contratti a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro, apprendistato, precari di vario genere, restano fuori. Se a questo si aggiunge il ritardo con il quale i giovani riescono oggi ad inserirsi nel mondo del lavoro si comprendono bene le ragioni delle loro scarse adesioni. Questo è uno, forse il principale, degli interrogativi sulla situazione attuale della previdenza complementare e sulla sua capacità di risolvere il problema per cui è nata.
A complicare le cose è poi intervenuta la modifica dell’articolo 117 della Costituzione. La nuova norma ha riservato alla competenza esclusiva dello Stato la “previdenza sociale” ed attribuito alla legislazione concorrente delle Regioni la “previdenza complementare ed integrativa”. Quindi la potestà normativa sulla previdenza complementare appartiene alle Regioni mentre al potere statale resta solo la fissazione dei principi fondamentali. In altri termini l’edificio previdenziale del futuro dovrebbe reggersi su tre fondamenta di cui una uguale in tutto il territorio nazionale costruita dallo Stato e le altre due variabili secondo le volontà e le disponibilità delle diverse Regioni.
Tale distinzione costituzionale appare assurda e anacronistica dal momento che tutte queste forme previdenziali dovrebbero formare un unico sistema e far parte indissolubile dell’ordinamento pensionistico italiano. Se lo scopo delle diverse forme di previdenza è quello, e non può essere che quello, di creare un sistema organico che garantisca a tutti i lavoratori pensionati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita non sono comprensibili diversità di norme e di trattamenti da una Regione all’altra.
E’ poi da considerare il problema dell’alimentazione del Fondo : la grande maggioranza dei lavoratori non ha la capacità di destinare alla previdenza complementare parti consistenti della propria retribuzione e nel contempo non è ipotizzabile imporre ai datori di lavoro oneri aggiuntivi oltre a quelli, già notevoli, della contribuzione obbligatoria.
Un altro ostacolo alla diffusione della previdenza complementare risiede nella estrema incertezza dei rendimenti dei Fondi pensione. La recente legge delega (n.243 del 23 agosto 2004) è intervenuta su questi problemi ai fini di rilanciare la previdenza complementare, sia riformando la precedente legge in materia sia alimentando le contribuzioni ai Fondi attraverso il conferimento obbligatorio del trattamento di fine rapporto.
I principi fondamentali sono stati espressi in un “avviso comune” sottoscritto il 17 febbraio 2005 da UGL, CISL, UIL e CGIL e da diciannove organizzazioni datoriali (tra cui Confindustria e Confcommercio). L’avviso comune punta a modificare radicalmente l’impianto del decreto legge governativo che introduceva alcuni concetti giudicati dalle associazioni firmatarie molto pericolosi per il futuro previdenziale. Ha respinto l’idea iniziale di far scegliere al datore di lavoro la destinazione del TFR dei lavoratori in caso di silenzio assenso, privilegiando il metodo della contrattazione collettiva. Inoltre sarà sempre la contrattazione collettiva a definire gli ambiti e i limiti istituzionali di trasferimento degli accantonamenti da una forma pensionistica all’altra.
Nell’avviso comune si respinge poi l’ipotesi di equiparazione fiscale e normativa tra le varie forme di previdenza complementare trattandosi di strumenti diversi che solo in teoria hanno le medesime finalità. Particolare attenzione è stata poi dedicata al ruolo della COVIP che deve rimanere l’unica ed indipendente autorità di controllo e di garanzia su tutti i fondi. Si è proposto infine di rendere concretamente fruibile da parte dei lavoratori una adeguata informazione sulle varie opzioni dei fondi complementari.
Il decreto legislativo emanato dal governo ha recepito solo in parte le indicazioni dell’avviso comune. Mentre è stato rispettato il ruolo della contrattazione è tuttavia rimasta l’equiparazione giuridica tra i fondi negoziali e gli altri, in particolare con le polizze assicurative. L’aspetto fiscale è rimasto immutato e il ruolo della COVIP è stato confermato anche se non come “Autorità” autonoma dal Ministero del Lavoro.
Va valutato peraltro del tutto negativamente lo slittamento al 2008 dell’entrata in vigore del provvedimento, in aperta contraddizione con l’urgenza della riforma e quanto mai dannoso per i giovani lavoratori.
IV.3. L’immigrazione
Nell’affrontare il tema dell’immigrazione va considerato che il processo migratorio ha assunto ormai le dimensioni di un fenomeno epocale che trae origine da una molteplicità di fattori economici, demografici e geopolitici e che pertanto è da considerarsi di carattere strutturale almeno fino a quando tali fattori, ricollegabili a profondi squilibri planetari, permarranno. Sarebbe errato partire da un’ottica emergenziale per analizzare gli innumerevoli aspetti del problema e avanzare soluzioni al riguardo. Deve essere chiaro che il fenomeno rappresenta una sfida di lungo termine che si pone all’Italia e alla intera Europa.
Oltre al dato strutturale e a quello dimensionale europeo, va tenuto conto di altri due aspetti che caratterizzano il flusso migratorio in Italia : la notevole stabilizzazione risultante da diversi fattori (percentuale di residenti di lunga durata, numero crescente di minori con inserimento nel sistema scolastico, notevole entità di ricongiungimenti familiari) e i positivi risvolti sul sistema produttivo e sul versante previdenziale. A questo riguardo vanno considerati, in relazione alla popolazione italiana, il noto deficit di natalità, il rifiuto di certi lavori, la scarsa propensione alla mobilità.
Non è a caso che si parla di problema dell’immigrazione. Infatti gran parte dell’opinione pubblica italiana ed europea, pur nutrendo verso i cittadini immigrati sentimenti di solidarietà e di comprensione umana, ha anche senso di preoccupazione per le modalità di inserimento nel tessuto economico e sociale del loro Paese. E’ una questione sociale che non va sottovalutata e si riferisce ai problemi relativi ai processi di integrazione e alle preoccupazioni sul piano dell’identità nazionale, dell’occupazione, dell’ordine pubblico, della sicurezza personale. Questo malessere trae origine anche nelle incertezze e nelle paure legate ad una globalizzazione dagli effetti ancora non ben definiti, nei recenti sviluppi terroristici e nelle guerre in atto.
Ai fini di una auspicata integrazione dei lavoratori regolarmente immigrati va data sicurezza a questa opinione pubblica attraverso una lotta efficace alla clandestinità e alla criminalità che la utilizza e la sfrutta nonché ad una ordinata programmazione dei flussi coerente con le prospettive e le esigenze del mercato del lavoro. Per questo sembra giusto, come prevede l’ultima legge in materia (la nota Bossi-Fini), collegare l’ingresso e il soggiorno in Italia degli immigrati alla esistenza di un rapporto di lavoro : la garanzia di un lavoro è l’unico strumento atto a tutelare la dignità della persona immigrata e il suo inserimento, con la pienezza di diritti e di doveri, nella società italiana. A proposito di questa legge va poi dato atto che ha prodotto una emersione di lavoro nero senza precedenti : sono stati circa 650.000 gli extracomunitari, prima clandestini, che hanno avuto un regolare contratto di lavoro, accompagnato dal versamento dei contributi, dall’assistenza sanitaria, dal pagamento delle imposte, in un contesto quindi di sicurezza sociale per l’immigrato.
Circa le quote di ingresso è auspicabile che questo meccanismo nazionale, risultato spesso inadeguato rispetto alle richieste imprenditoriali, possa essere rivisto nel senso di prevedere l’immissione di lavoratori stranieri sulla base dei contratti di lavoro che si renderanno disponibili anche attraverso la formazione professionale prevista dalla legge in quei Paesi che dimostrino una effettiva volontà di collaborazione.
Un forte contributo per risolvere il problema dell’immigrazione contenendone la portata in limiti sostenibili dalle società di accoglienza è quello delle politiche di cooperazione e di collaborazione con gli Stati da cui provengono i maggiori flussi. Attraverso una politica coordinata a livello europeo è necessario creare con tali Stati un rapporto di sostegno, di massimo aiuto per lo sviluppo, per consentire che i cittadini trovino lavoro nel loro Paese, senza essere costretti a varcare le frontiere e ad affrontare gli inevitabili processi di sradicamento dal loro ambiente e dalle loro culture. Questa politica di cooperazione è indispensabile del resto anche per fare fronte all’immigrazione illegale clandestina e ai fenomeni criminali ad essa collegati nonché per favorire i rimpatri.
In conclusione l’obiettivo da perseguire deve essere quello di trovare il necessario equilibrio tra le politiche di accoglienza civile e di inserimento nel tessuto produttivo e politiche di sicurezza e di contrasto all’illegalità connessa alla clandestinità. Il risultato deve essere quello di assoluta parità degli immigrati regolari nel trattamento complessivo di lavoro, dall’accesso all’impiego alle condizioni lavorative, dai livelli retributivi al trattamento pensionistico. I cittadini stranieri regolarmente residenti devono essere poi considerati alla pari degli altri cittadini nelle politiche generali e settoriali (abitazione, sanità, scuola, assistenza socio-economica). Nel contempo massima decisione va posta nel contrasto dell’immigrazione clandestina.